di JOHNNY GADLER
BORGO VALSUGANA – Il 6 luglio 1862 un furioso incendio devastò il paese di Borgo, distruggendo 159 case e l’ex monastero di S. Anna. Il giorno seguente si contarono cinque morti, 2 mila senza tetto e 400 mila fiorini di danni.
Il 6 luglio 1862 era una domenica di sole come tante altre per il paese di Borgo. La gente, dopo aver partecipato alla messa festiva nella chiesa arcipretale, si era ritrovata sul sagrato per scambiare le consuete quattro chiacchiere con amici e parenti, magari lamentandosi per l’andamento della stagione agricola, fortemente compromessa da un’improvvisa gelata che qualche mese prima, il 16 aprile, aveva irrimediabilmente danneggiato la viticoltura e la bachicoltura.
Il pacifico vocìo di uomini e donne che conversavano amabilmente, talora sovrastato dalle grida di gioia dei bambini che riecheggiavano nell’aria tersa di quel bel mattino estivo, pareva destinato a durare per l’eternità.
Invece poi, all’improvviso, il Borgo era ripiombato in un silenzio quasi irreale, rotto qua e là soltanto dal tintinnio, proveniente dalle finestre aperte delle case, di piatti e posate che sembravano anch’essi godere per quel giorno di festa. Riunita attorno al tavolo, ogni famiglia si apprestava a consumare il pranzo domenicale, meno frugale rispetto agli altri pasti della settimana, eppure di certo, almeno per molti, non sufficiente a placare la fame.
Anche la famiglia di Cristiano Galvan che abitava in una casa posta tra la Via Piccola e la Via Maggiore, aveva osservato quei semplici riti quotidiani, attardandosi a tavola meditando sul come ingannare quel pigro pomeriggio estivo, caldo sì ma mitigato da un piacevole vento che invogliava a trascorrere qualche ora all’aria aperta come era successo tante altre volte. Ma quella non sarebbe stata affatto una giornata come tutte le altre, né per i Galvan, né per il Borgo.
Poco dopo le 13.30, infatti, il Borgo sonnacchioso fu improvvisamente ridestato dalle urla concitate della gente e dalle campane suonate a martello, segno inequivocabile di un pericolo incombente.
A chi si affacciò alla finestra per capire cosa stesse accadendo, la densa colonna di fumo che si levava verso il cielo non lasciò ormai più dubbi. Era capitato ciò che non doveva succedere, soprattutto in quella parte di paese composta da case costruite una addossata all’altra, con tetti interamente in legno e sottotetti spesso pieni di sarmenti o di ramaglie secche utilizzate per i pochi bachi da seta scampati alla gelata primaverile.
Il Borgo andava a fuoco, ecco quello che stava succedendo. L’incendio si era originato proprio dal camino di casa Galvan e in breve tempo, alimentato anche dal vento, aveva raggiunto le abitazioni limitrofe. Non erano scoccate neppure le 14.00 che tutta l’area compresa tra la Via Piccola e la chiesa di S. Anna, fino alla contrada dei Forni nella parte meridionale del paese, appariva divorata da fiamme altissime.
La gente in preda al panico cercava di difendere la propria abitazione dal fuoco con mezzi di fortuna; poi, sopraffatta dalla furia dell’incendio, provava almeno a salvare gli utensili e le suppellettile accatastandoli ai pianterreni delle case, nei tradizionali “vòlti” in sasso. Rifugi, a dire il vero, non sempre indovinati, perché la potenza dell’incendio fu talmente forte che molte “volte a botte” caddero rovinosamente.
Dopo la soppressione di tutti i monasteri dell’impero avvenuta nel 1782 per volontà di Giuseppe II, il complesso monastico di Sant'Anna, che dal 1673 aveva ospitato le Clarisse, era stato in parte trasformato in carcere. Quando ci si accorse che l’incendio era ormai fuori controllo, qualche anima pia corse verso l’ex monastero e con movimenti concitati aprì tutte le celle, impedendo così che i detenuti patissero le pene dell’inferno anzitempo.
Don antonio daldosso, intanto, era strenuamente impegnato nel tentativo di mettere in salvo gli arredi e i paramenti sacri della Chiesa di Sant'Anna, ormai completamente avvolta dalle fiamme. Il prelato fece appena in tempo ad uscire dal tempio eretto tra il 1668 e il 1672, che il tetto crollò con un fragore inaudito. Le fiamme non ebbero pietà nemmeno di quel poco che affiorava tra le macerie: i preziosi banchi in noce furono inceneriti, così come il corpo di San Claudio Martire, la tavola dipinta posta sul suo altare e quelle degli altari di Santa Chiara e San Carlo.
Ma il fuoco intaccò pure le colonne di marmo incatramato e il campanile le cui campane, per il calore, cominciarono addirittura a liquefarsi.
Il Borgo arse per l'intera giornata e parte della notte. Poi i borghigiani, con l’aiuto delle macchine idrauliche inviate dai paesi circonvicini e dei volontari giunti dall’intera vallata,
riuscirono a spegnere – finalmente – le fiamme.
Il mattino dopo la luce del sole disvelò uno spettacolo davvero agghiacciante: 159 abitazioni completamente distrutte, l’ex monastero di Sant'Anna e l’annesso edificio di culto irreparabilmente danneggiati, quasi 2 mila persone rimaste senza un tetto sotto cui dormire e, purtroppo, anche cinque vittime: le sorelle Gioseffa e Giovanna Bastiani, rispettivamente di 22 e 20 anni, Margherita Moranduzzo fu Pietro di 56 anni; Giacomo Cappello fu Bortolo di 25 anni e Pietro Dandrea fu Giuseppe, morto all’ospedale a causa delle gravissime ustioni riportate. L’area interessata dall’incendio risultò di ben 24 mila metri quadrati, mentre i danni cagionati alla popolazione furono stimati in circa 400 mila fiorini.
L'opera di ricostruzione fu avviata con grande solerzia e coincise con l’inizio dell’attività della Conferenza di San Vincenzo.
I danni materiali furono subito riparati, ma nel ricordo della popolazione quel tragico evento rimase a lungo come una ferita aperta, tanto che, proprio per non dimenticare, su una casa posta in fondo a Via Fratelli ancor oggi si può vedere una targa che recita: «Borgo devastata da incendio VI luglio MDCCCLXII ricorda due mila senza tetto / cinque spenti / grata a Italia, Europa, America in tanta sventura soccorritrici / il Municipio a perpetua memoria pose MDCCCLXXI».
Passava così alla storia una giornata iniziata come tante altre e finita in autentica tragedia, quasi a voler ricordare all’uomo quanto precarie siano le faccende terrene, che spesso amiamo ammantare di eterno, ma che non sono affatto imperiture; anzi, possono liquefarsi in poche ore, nel corso di un normale pomeriggio, come tanti altri, di una bella domenica d'estate.