di EMANUELE PACCHER
In Egitto le persone non possono esprimere un'idea politica e quando si parla di diritti umani la gente ha terrore. Le donne, poi, hanno scarsissime opportunità lavorative e universitarie, perché è convinzione dominante che le donne stiano meglio in casa.
Sono queste alcune delle forti accuse lanciate – il 15 dicembre scorso, dall'aula 2 di Sociologia dell'Università di Trento, – da Patrick Zaki, l'attivista egiziano studente dell'Università di Bologna, assurto agli onori delle cronache italiane e internazionali per la sua lunga carcerazione nel penitenziario egiziano di Mansura. L'accusa? Aver scritto un articolo, pubblicato nel 2019 sul giornale libanese Daraj, sui cristiani copti perseguitati in Egitto.
L'Università di Trento è stata tra le prime istituzioni italiane ad aderire a Sar (Scholars at Risk), una rete internazionale che promuove la libertà accademica e protegge studiose e studiosi in pericolo di vita, o il cui lavoro è seriamente compromesso.
Tra le attività promosse da Sar, c’è quella di advocacy. Sostenere iniziative per sensibilizzare la comunità universitaria, le istituzioni politiche e la società civile in merito a casi di violazioni contro esponenti del mondo accademico: studenti, studentesse, studiose e studiosi.
Il 14 e 15 dicembre scorsi il Centro Jean Monnet in collaborazione con il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale ha organizzato l’European student advocacy days, un laboratorio per presentare e discutere nuove campagne di advocacy su casi che riguardano persone a rischio in Bielorussia, Iran, Russia, Turchia, Etiopia.
Ed è proprio in tale contesto che Patrick Zaki è giunto a Trento, per parlare della sua esperienza e condividere alcune riflessioni sulla violazione della libertà accademica nel contesto mediorientale e nordafricano.
«In Egitto – ha raccontato Zaki – lavoravo focalizzandomi sulle umiliazioni a cui le minoranze religiose e la comunità LGBTQ sono soggette. Le donne vivono in una situazione molto negativa per quel che riguarda le loro opportunità, lavorative e universitarie. I PhD (dottorati di ricerca, NdR) vanno sempre agli uomini, perché la convinzione è che la donna stia meglio a casa”.
Anche il mondo universitario non si salvava e non si salva dunque.
«Nelle università egiziane non ci sono associazioni studentesche. Non si vuole dare voce agli studenti. Le persone non possono avere un punto di vista politico, non è possibile partecipare a nessuna azione politica. Quando si parla di diritti umani la gente inizia ad avere il terrore, ci si sente in prigione anche per le strade e nelle proprie case», ha proseguito il giovane studente.
«Apprezzo molto i miei colleghi che in Egitto stanno continuando a lavorare nonostante il pericolo di finire in prigione, continuando a credere nel cambiamento e combattendo per la libertà».
Ora che dal punto di vista personale Patrik Zaki ha riottenuto la sua libertà, non ha comunque smesso di lottare per i diritti umani. La sua vita è tornata più o meno come prima, nonostante alcune cicatrici rimangano nel tempo: «Vado avanti e indietro tra l’Italia e l’Egitto. Sto facendo del mio meglio per normalizzare questa situazione. Ogni volta che torno è rischioso. Vengo sempre fermato in aeroporto e le guardie fanno delle chiamate. Sto cercando di superare questo trauma, ma non è facile”.
Quel fatidico 7 febbraio 2020, Zaki non si sarebbe infatti mai aspettato di subire quel calvario a cui poi è stato sottoposto.
«All’epoca non ero a conoscenza del fatto che ci fosse un mandato nei miei confronti. Tutto sommato a me è andata anche bene: un’altra persona che ho conosciuto per un like a un post controverso su Facebook è stato fatto scomparire per otto anni. Io solo per poche ore, circa 36, anche se poi il calvario giudiziario è durato per molti mesi».
Segnali di un miglioramento in Egitto purtroppo non ce ne sono. «Io non vedo nessun segno di miglioramento. Io sono sempre ottimista, ma questa volta non vedo alcuna prova del fatto che qualcosa stia cambiando. Non esiste un’opposizione politica, e sono tantissimi gli attivisti che vengono costantemente arrestati» afferma Zaki.
Durante il lungo periodo di prigionia, uno dei più grandi problemi era quello comunicativo. «Uno dei miei peggiori incubi era non sapere cosa stesse accadendo al di fuori delle mura in cui ero rinchiuso. Non avevo accesso a nessun giornale, e ho visto la mia famiglia un solo giorno. I modi per comunicare erano diversi, legali e illegali. Io li ho usati tutti» ha ricordato Zaki. Che aggiunge:«Potevo scrivere alcune lettere, ma solo in arabo. In prigione poi mi portavano la ricevuta dei soldi che mi lasciavano i parenti. Ogni settimana veniva un familiare differente, così almeno potevo leggere il suo nome e sapere che era vivo. Avevo poi instaurato alcune relazioni con dei criminali che avevano dei piccoli cellulari. In questo modo, anche se raramente, ho parlato con la mia famiglia per assicurarmi che stessero tutti bene».
Il problema più grande per Zaki era rappresentato dal tempo che passava, senza alcuna coscienza di ciò che capitasse nel mondo e senza alcuna speranza per il futuro.
«Dopo tre mesi di prigionia mi hanno consentito l’accesso a dei giornali locali, ma c’era scritto poco di ciò che succedeva. Stavo per 23 ore al giorno in una cella piccolissima. Mi facevo molte domande: c’è una speranza per me? Perché sono qui?».
Oggi il ricordo di Zaki è ancora amaro, tanto che conclude: «Sono stato due anni in prigione, ed è stato molto difficile riadattarmi alla vita quotidiana. Prima ero molto socievole, amavo fare nuovi amici e parlare. Uscito dalla prigione trovavo molto difficile parlare e interagire con le persone che mi stavano intorno. È stato fondamentale in questo il supporto psicologico. Sto cercando di superare tutto questo, ma richiede tempo: non si può dimenticare la prigionia!».