di LINO BEBER
Recentemente passeggiando per le vie di Firenze, dopo Piazza della Signorìa e la Galleria degli Uffizi, sono arrivato ai possenti argini del fiume Arno in un punto dove si gode una bella vista sul Ponte Vecchio e ho notato che sul lato degli Uffizi rivolti verso l’Arno in due nicchie si trovano le statue di due personaggi fiorentini, Pier Capponi e Francesco Ferruzzi.
Mi sono ricordato che già alle scuole elementari il maestro Mario Anderle ci aveva insegnato i loro due celebri motti.
Piero Capponi nacque a Firenze il 18 agosto 1446; inizialmente era destinato a una carriera di mercante, ma Lorenzo de’ Medici (1449-1492), che ne apprezzava l’ingegno, lo inviò come ambasciatore presso varie corti.
Alla morte di Lorenzo, al quale succedette il meno capace figlio Piero, Capponi divenne uno dei capi della fronda contraria ai Medici che due anni dopo riuscì a cacciare Piero de’ Medici da Firenze.
Capponi, nominato capo della repubblica, si dimostrò un abile statista, in particolare nelle trattative con Carlo VIII di Francia, che nel 1494 aveva invaso l’Italia e presso il quale si era rifugiato Piero de’ Medici.
L’aneddoto più famoso riguardante Pier Capponi è legato all’arrivo di Carlo VIII e del suo esercito a Firenze.
I Fiorentini erano disposti a offrire a Carlo VIII una bella somma di denaro per il suo sostegno, ma non c’era accordo sull’entità.
Allora Carlo VIII presentò un ultimatum alla Signoria e, avendo ricevuto un rifiuto, minacciò dicendo: «allora noi suoneremo le nostre trombe».
A questa minaccia rispose deciso Capponi: «e noi faremo suonare le nostre campane», manifestando l'intenzione della città di resistere.
Carlo VIII, che non poteva accettare la prospettiva di una battaglia, fu costretto a moderare le sue richieste concludendo un più equo trattato con la repubblica. Quando le truppe francesi lasciarono la Toscana, Pier Capponi guidò l'esercito di Firenze a domare i focolai di rivolta alimentati dai Pisani e trovò morte cruenta il 25 settembre 1496 durante l'assedio al castello di Soiana (Pisa).
Francesco Ferrucci nacque a Firenze il 14 agosto 1489 da una famiglia di mercanti e il padre avrebbe voluto che ne seguisse le orme, ma il carattere impulsivo e deciso del figlio gli faceva preferire la caccia.
Nel 1519 assunse l'incarico di podestà a Larciano, nel 1523 a Campi Bisenzio e nel 1526 a Radda in Chianti e, quando nel 1527 i Medici furono cacciati da Firenze, Francesco entrò a far parte delle famose “Bande Nere”.
Nelle vicende belliche e politiche di quel periodo, Firenze si trovò seriamente minacciata dall’esercito dell’Imperatore Carlo V d'Asburgo, col quale il papa Clemente VII si era alleato nella speranza di restaurare nella capitale toscana la sua casata dei Medici.
Nel 1528 Ferrucci fu nominato Commissario a Empoli, nel 1530 riuscì a domare la ribellione di Volterra contro Firenze e proprio in questa città si scontrò con un distaccamento dell'esercito spagnolo agli ordini del capitano di ventura Fabrizio Maramaldo (1494-1552), che assediò la città e, prima di iniziare la battaglia, inviò un messaggero – forse un “tamburino” – per intimare la resa a Ferrucci, il quale ordinò al messo di ritirarsi immediatamente aggiungendo che lo avrebbe impiccato se si fosse ripresentato.
Pochi giorni dopo Maramaldo inviò nuovamente lo stesso messaggero, che fu impiccato da Ferrucci facendo infuriare il mercenario calabrese Maramaldo, che, dopo inutili tentativi di assaltare Volterra, fu costretto al ritiro dirigendosi a Firenze. Francesco Ferrucci si ritirò allora a Pisa dove ricevette l’ordine dalla Repubblica Fiorentina di tentare la liberazione della città, ma il 3 agosto 1530 uscì in campo aperto e tentò un ultimo scontro nella battaglia di Gavinana, dove Ferrucci fu ferito e con i pochi superstiti si arrese.
Fabrizio Maramaldo fece condurre il prigioniero sulla piazza di Gavinana e ordinò: «Ammazzatelo chillo poltrone, per l'anima del tamburino quale impiccò a Volterra!».
Poiché i soldati non osarono alzare le mani sul comandante fiorentino ferito, Maramaldo lo disarmò e, contro ogni regola della cavalleria, si vendicò delle offese precedenti, ferendolo a sangue freddo e lasciandolo poi trucidare dai suoi soldati.
Le cronache del tempo riportano che Francesco Ferrucci prima di spirare gli abbia rivolto con disprezzo le celebri parole: «Vile, tu uccidi un uomo morto!».
Dieci giorni dopo Firenze si arrese agli imperiali e dovette accettare il rientro dei Medici.
Il sacrificio di Ferrucci, in epoca risorgimentale, è diventato emblema del sentimento di orgoglio nazionale, e il nome del suo aggressore Maramaldo sinonimo per antonomasia (dal greco antico antonomázo cambiare nome) di “uomo malvagio, spavaldo e prepotente soprattutto con i deboli, gli indifesi, gli sconfitti”.