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Quando il patriota milanese Amatore Sciesa disse: «Tiremm innanz»





di LINO BEBER


Amatore Sciesa (Milano, 12 febbraio 1814 – Milano, 2 agosto 1851) è stato un patriota italiano. Era conosciuto anche col nome di Antonio Sciesa, a causa di un errore di trascrizione reso noto dopo varie ricerche e studi dallo scrittore Leo Pollini.

Di umili origini, di professione tappezziere, nel 1850 entrò in contatto con alcuni gruppi clandestini repubblicani che lottavano contro il dominio dell’Austria nel Lombardo-Veneto, dove il governatore generale feldmaresciallo Radetzky perseguiva una politica ferocemente repressiva, che non lasciava altro scampo ai patrioti lombardi che la sottomissione, la forca o l’esilio.

Alla diffusione di manifesti rivoluzionari partecipò anche Sciesa: la sera del 30 luglio 1851 egli fu bloccato in corso di Porta Ticinese in possesso di manifesti e arrestato con l'accusa di averne affisse alcune copie in via Spadari, a Milano.

Condannato a morte in un processo sommario istruito dal capitano auditore Carl Pichler von Deeben, Sciesa fu condotto alla forca.

Secondo la tradizione popolare, a un gendarme che, conducendolo al luogo di esecuzione, l'aveva fatto passare sotto le finestre di casa sua, esortandolo a rivelare i nomi di altri rivoluzionari in cambio del rilascio, avrebbe risposto in dialetto milanese: Tiremm innanz (Andiamo avanti).

Siccome mancava il boia, defunto alcuni giorni prima, venne fucilato e poi sepolto al Fopponino di Porta Vercellina, oggi non più esistente.

Racconta Giovanni Visconti Venosta che don Giuseppe Negri, il sacerdote che accompagnò Sciesa al patibolo, gli diede una versione leggermente diversa secondo la quale lo storico motto non l’avrebbe detto lungo la strada all'ufficiale che comandava i soldati, bensì poco prima che il triste corteo si avviasse al luogo del supplizio, forse a chi lo esortava a confessare. Nella sentenza erroneamente fu chiamato Antonio e per questo motivo nacque l'equivoco legato al suo nome. Sciesa, che era un povero diavolo, servì al governatore generale come esempio di severità e il fatto di essersi rifiutato di indicare i nomi degli altri congiurati costituì solo un’aggravante.


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