di MASSIMO DALLEDONNE
Si parte oggi, martedì 13 febbraio, con la cattura a Castel Ivano del conte Biagio per proseguire sabato 17 con l’allestimento del campo militare a Castello Tesino e la cena medioevale a Pieve Tesino.Domenica 18, infine, la giornata clou secondo il canovaccio che si ripetere da diversi secoli e la colossale bigolada finale in piazza San Giorgio.
La leggenda si basa su un fatto storico realmente accaduto. Era il 1365, quando la storia riporta una vicenda che, nei secoli a venire, ha fatto parte della tradizione, così come degli usi e costumi, della conca del Tesino.
COME SCRIVONO nella loro ricostruzione storica Narcisa Lucca, Mario Pernèchele e Ierma Sega «tradizione vuole che verso la metà del Trecento, un gruppo di Tesini armati di bastoni, forche e altri arnesi rudimentali, dopo avere saputo dell’assedio in corso al castello di Biagio delle Castellare da parte delle armate carraresi, sia sceso prima a Grigno e poi verso Castel Ivano cercando di catturare il tiranno per processarlo e giustiziarlo secondo i vecchi statuti della comunità. Ma Biagio, che nel frattempo si era rifugiato in territorio tedesco, riuscì a sfuggire alla cattura e alla popolazione indignata non restò altra soddisfazione che quella di sottoporre al giudizio della comunità un fantoccio di paglia con le sembianze del conte».
UNA LEGGENDA carnevalesca, quella del Biagio, che rivivrà il prossimo 18 febbraio a Castello Tesino, evento riproposto ogni cinque anni e che, a causa dell’emergenza sanitaria, non ha potuto svolgersi nel 2020. Una edizione attesa, vissuta e partecipata.
Ma torniamo alla storia, a quel 1365 anno in cui Siccone di Caldonazzo, alleato di Carlo IV di Lussemburgo, aveva preso d’assalto il castello di Pergine con il proposito di appropriarsi poi anche di altri territori in Valsugana.
Francesco da Carrara, allora impegnato in contese con i signori di Mantova, incaricò Biagio di organizzare nel più breve tempo possibile un esercito.
A questo scopo Biagio si rivolse anche alla comunità tesina la quale, però, gli negò uomini, cavalli e viveri.
Ricevuti rinforzi da Padova, Biagio marciò verso Levico, ma nell’estate del 1356 fu sconfitto nei pressi di Selva, nel frattempo conquistata da Siccone.
COSTRETTO A RITIRARSI nei castelli di Ivano e di Grigno, adirato per la disfatta e per non essere stato aiutato dai Tesini, Biagio saccheggiò e bruciò Castello, Pieve e Cinte vessando la popolazione con ogni sorta di angherie.
Con la pace siglata a Padova il 9 ottobre 1356, Francesco da Carrara dovette cedere ai duchi d’Austria i castelli di Pergine e Selva di Levico con gli annessi feudi.
Ancora il racconto di Lucca, Pernèchele e Sega.
«Nominò Biagio (da quel momento ‘delle Castellare’ dall’omonimo castello di Grigno dove si era insediato) signore con poteri assoluti su Grigno e Tesino. Fu questo l’inizio di nove lunghi anni durante i quali la popolazione della valle subì dal nuovo signore soprusi inauditi, angherie, violenze, vessazioni, omicidi e stupri.
QUANDO VERSO LA FINE del 1364, Rodolfo IV d’Austria mosse guerra a Francesco da Carrara, Antonio d’Ivano e Biagio delle Castellare lo tradirono reputando gli Austriaci di gran lunga più forti. Ma la guerra, inaspettatamente, volse a sfavore di questi ultimi e il Carrarese, rinforzatosi di nuovi alleati, riconquistò Grigno. I Tesini, velocemente armatisi, raggiunsero Grigno per appoggiarne l’esercito intanto impegnato nell’assedio del castello di Biagio. Difeso da pochi uomini il maniero fu rapidamente conquistato anche se il conte, nel frattempo, era riuscito a fuggire alla cattura e a rifugiarsi, insieme ad un gruppo di suoi fedeli, nel vicino castello di Antonio d’Ivano. Dopo giorni di battaglie i carraresi riuscirono ad espugnare anche questo rifugio e a catturare Biagio delle Castellare, il signore d’Ivano e le loro famiglie. Nonostante i Tesini pretendessero la testa di Biagio, Francesco da Carrara negò la consegna dell’ostaggio ed essi, in sua vece, giustiziarono un fantoccio e alcuni dei suoi sgherri che si erano distinti per misfatti e crudeltà. A parziale soddisfazione, gli abitanti della valle stabilirono di celebrare, il primo giorno di Quaresima di ogni anno, un processo in contumacia durante il quale elencare e denunciare le colpe per il quale il crudele Biagio meritava la pena di morte».
E ancora oggi, 659 anni dopo, il Tesino rivive gli echi di quella sommossa popolare con la festa che si svolge l’ultimo giorno di carnevale e il primo giorno di quaresima, data per tradizione cristiana legata all’astinenza e alla penitenza.
ECCO COME IN PASSATO si svolgeva la rievocazione storica del conte Biagio.
«Il primo giorno da piazza Crosara, punto centrale del paese di Castel Tesino – si legge ancora nel documento che porta la firma di Narcisa Lucca, Mario Pernèchele e Ierma Sega – partono un gruppo di guardie a cavallo precedute da tre giovani di discreta statura abbigliati con lunghe vesti variopinte e altissimi cappelli sui quali è scritto Diritti Antichissimi. Nel frattempo, seguendo la strada che scende verso Grigno e poi risale in direzione di Strigno passando per Ospedaletto e Villa Agnedo, arrivano a Castel Ivano un secondo gruppo di guardie e la polizia segreta. Quest’ultima, originale parodia di agenti segreti con mantello nero, ha il compito di sventare eventuali piani di fuga organizzati dai fedelissimi di Biagio».
UNA VOLTA GIUNTI a Castel Ivano tutti si fermano in attesa del conte Biagio in catene dove la polizia segreta lo consegna alle guardie tesine insieme alla moglie, ai due figli e a un nobile di corte, lo stesso che più tardi impersonerà la figura del corruttore.
Da qui il corteo si ricompone e riparte verso il Tesino con Biagio delle Castellare che arriva nella piazza principale del paese che è già buio.
«Il mattino seguente tutto riprende con rigorosa solennità. Verso le nove si forma nuovamente il corteo al gran completo: la banda e i gruppi folkloristici locali, un gruppo di donne negli antichi costumi, le guardie a cavallo e gli armigeri, i cortigiani, i boia incappucciati, la polizia segreta, Biagio e la sua famiglia, i testimoni, i tre rappresentanti dei Diritti Antichissimi e, naturalmente, una gran folla. A Pieve è già tutto predisposto per il processo. La corte è composta da un cancelliere che, dopo aver introdotto alcune note storiche sulla vicenda, spiega le circostanze che hanno portato Biagio delle Castellare davanti al tribunale di Tesino; dal presidente della corte che apre le sedute, interroga i testimoni e annuncia la sentenza di morte; dal pubblico ministero che legge l’atto di accusa; dall’avvocato difensore che assai poco abilmente si destreggia a difendere e giustificare un uomo dei cui misfatti egli stesso si ritiene vittima. Sono poi presenti, indispensabili elementi del processo, due testimoni di accusa (Jijo Mescola, derubato delle galline e Toni Renga, derubato della moglie) ma non c’è alcun testimone della difesa».
DAL 1947 IL PROCESSO al Biagio è stato organizzato in maniera spettacolare: per cura di Emilio Busarello ne è stato anche trascritto il testo che, da allora, è lo stesso che viene recitato dagli attori a ogni rievocazione.
Prima del 1947, invece, tutte le fasi processuali si tramandavano oralmente e solamente quanti interpretavano la parte dei giudici avevano a disposizione alcune orientative indicazioni andate però distrutte durante il primo conflitto mondiale.
TORNANDO AL procedimento contro il Biagio, dopo che il dibattimento è stato rinviato per competenza alla suprema corte di Castel Tesino, a mezzogiorno il processo riprende nella piazza, di fronte alla chiesa di San Giorgio: prendono posto i giudici e la giuria che ascoltano il testimone a favore (Nane Narò, beneficiato dal conte) ma, anche dopo la sua deposizione, appare evidente lo stato di colpevolezza di Biagio.
«Viene quindi emessa la sentenza definitiva – si legge ancora – con il tiranno che cerca insistentemente di comunicare con lo sguardo con l’uomo che lo segue fin dal momento dell’arresto a Castel Ivano e che, nel frattempo, tenta di corrompere con denaro e gioielli le guardie. Pur se interessati gli armigeri scuotono la testa in segno di diniego ma il loro capitano, accortosi della situazione, arresta il corruttore e lo porta davanti ai giudici che lo processano per direttissima condannandolo all’immediato taglio della mano destra. Biagio appare sconsolato, la moglie e i due figli piangono rumorosamente. Ma, colpo di scena, approfittando della confusione creata dagli spostamenti dei giudici, Biagio scivola rapidamente fra le guardie e fugge nelle vie interne del paese. Immediatamente la polizia segreta si mette sulle sue tracce ma egli si infila in una casa e scambia le sue vesti con un fantoccio di paglia. Lo stesso fantoccio che sarà di lì a poco trascinato davanti alla corte riunita per la sentenza e che, al pronunciamento della condanna a morte mediante impiccagione. Mentre i famigliari di Biagio continuano a piangere e supplicano clemenza, la folla comincia a rumoreggiare. Da un piccolo palco di legno dove è pronto un vistoso cappio scendono, accompagnati dalle guardie, due uomini interamente vestiti di rosso con un grande cappuccio in testa: il boia e il suo aiutante. Preso in consegna il conte delle Castellare, lo trascinano verso la forca. Una volta Una volta giunti sul patibolo, il capitano delle guardie dà l’ordine di procedere alla sentenza. Biagio viene lasciato penzolare dalla forca fino all’arrivo del dottore il quale, dopo averlo fatto calare a terra, ne certifica il decesso. Dopo che la banda del paese ha avviato la marcia funebre, la salma del conte viene deposta su una barella e accompagnata verso il vecchio municipio del paese. Solo allora il giudice supremo dà ufficialmente avvio alla bigolada dopo aver pronunciato la fatidica frase: giustizia è fatta».
Il Biagio tra divieti e aggregazione sociale
La celebrazione del Processo al Biagio ha segnato, in più occasioni, un importante momento di coscienza e aggregazione sociale. Osteggiato dalla chiesa anche per il suo scarso rispetto ai precetti di morigeratezza del mercoledì delle ceneri, tra il 1928 e 1947 la manifestazione venne proibita anche dalla questura di Trento.
Ma, nonostante il divieto, il Biagio continuò ad essere impiccato, pur se in maniera frettolosa e per le vie nascoste del paese, sia durante il periodo fascista che in quello dell’occupazione tedesca. E anche durante la prima guerra mondiale, quando la popolazione era stata trasferita in diverse località della penisola italiana, gli anziani continuarono ad organizzare la loro festa.
In più occasioni la celebrazione del processo al Biagio suscitò la curiosità di viaggiatori e cronisti dell'800 e del '900.
Alcuni di loro, anzi, nei loro scritti hanno ricordato la rappresentazione. Tra essi Nepomuceno Bolognini, profondo conoscitore delle usanze e dei costumi della Valle che, nel 1886 descrive il Processo al Biagio come una «baldoria [...] certo istituita a ricordo e abborrimento del tiranno Biagio di Castelnuovo, il quale fece saccheggiare e incendiare quei paesi perché non vollero prendere le armi in favore dei Carraresi, ma rimanere fedeli a Siccone di Caldonazzo: veda le cronache della Valsugana di quei miseri tempi in cui ogni paesello aveva il suo tiranno e ogni tiranno per suo diletto, faceva ammazzare fra di loro i soggetti che parlavano la stessa lingua e bevevano l’acqua dello stesso torrente».
Tra le testimonianze più recenti anche quella di Aldo Gorfer che, soffermandosi sugli aspetti storico sociali e folklorici delle genti tesine, dice: «Il processo al Biagio delle Castellare si celebra ogni anno il primo giorno di Quaresima colla partecipazione di tutta la valle. Biagio è l'allegoria del tirannello del Castello di Grigno, dalle prepotenze del quale i Tesini si erano liberati nella seconda metà del XV secolo. [...] Si tratta di una festa folkloristica che ha l'andamento allegorico-didascalico delle sacre rappresentazioni medioevali».
Tra le numerose cronache sulla partecipazione della popolazione alla manifestazione del Biagio, merita di essere menzionata la simpatica descrizione di Lorenzo Felicetti il quale, a inizio '900, in un volumetto che successivamente riceverà numerose ristampe, osserva: «Le più strane fogge del vestire si inventavano per quel giorno. Vi erano le uniformi alla napoleonica, confuse con quelle moderne, militari e civili: vi erano divise alla turca alla chinese, da far sbellicare dalle risa chi li vedeva! […] I fantaccini variopinti e con pose ridicolissime, portavano maestosamente arditi ogni sorta di armi antiche e nuove; picche, acce, durlindane, schioppi, tutto roba fina, s'intende! i cavalieri erano montati sopra le peggiori rozze che esistevano in valle; cavalli zoppi, ciechi, magri stecchiti, asinelli spelati, impiagati, mezzo morti, coperti tutti da certe gualdrappe antiche che facevano una comparsa piacevolissima. La musica non mancava. trombe, corni, tamburi, secchi e, padelle, casse di latta, un pandemonio lacerator di ben costrutti orecchi».